Le Favole di Nonnalina
La Lepre e la Targaruga
La lepre un giorno si vantava con gli altri animali: “ Nessuno può battermi in velocità – diceva – Sfido chiunque a correre come me. “ La tartaruga, con la sua solita calma, disse: – Accetto la sfida. – Questa è buona! – esclamò la lepre; e scoppiò a ridere. – Non vantarti prima di aver vinto, replicò la tartaruga. – Vuoi fare questa gara? – Così fu stabilito un percorso e dato il via. La lepre partì come un fulmine: quasi non si vedeva più, tanto era già lontana. Poi si fermò, e per mostrare il suo disprezzo verso la tartaruga, si sdraiò a fare un sonnellino. La tartaruga intanto camminava con fatica, un passo dopo l’altro, e quando la lepre si svegliò, la vide vicina al traguardo. Allora si mise a correre con tutte le sue forze, ma ormai era troppo tardi per vincere la gara. La tartaruga sorridendo disse: “Non serve correre, bisogna partire in tempo.”
Il Leone Infuriato e il Cervo
Un leone era infuriato. “Poveretti noi!”, disse un cervo, scorgendolo di tra le piante del bosco, “che cosa mai non farà, ora che è su tutte le furie, costui, che noi non riuscivamo a sopportare nemmeno quand’era in buona?”.Teniamoci tutti lontani dagli uomini violenti e usi al male, quando essi si impadroniscono del potere e signoreggiano sugli altri.
I Due Cani
Un tale che aveva due cani ne addestrò uno alla caccia e allevò l’altro per guardia della casa. Quando poi il primo, andando a caccia, prendeva della selvaggina, ne gettava una parte anche all’altro. Allora il can da caccia, sdegnato, cominciò ad insultare il compagno, perché lui andava fuori, sobbarcandosi continue fatiche, mentre l’altro godeva il frutto del suo lavoro, senza far nulla. Il cane domestico gli rispose: “Non con me devi prendertela, ma col nostro padrone, che mi ha insegnato, non a lavorare, bensì a sfruttare il lavoro altrui”.Così non si possono biasimare i fanciulli pigri, quando li rende tali l’educazione dei loro genitori.
Una Fiaba di Italo Calvino
C’era una volta un re che aveva perduto un anello prezioso. Cerca qua, cerca là, non si trova. Mise fuori un bando che se un astrologo gli sa dire dov’è, lo fa ricco per tutta la vita. C’era un contadino senza un soldo, che non sapeva né leggere né scrivere, e si chiamava Gambara.
– Sarà tanto difficile fare l’astrologo? – si disse. – Mi ci voglio provare. E andò dal Re.
Il Re lo prese in parola, e lo chiuse a studiare in una stanza. Nella stanza c’era solo un letto e un tavolo con un gran libraccio d’astrologia, e penna carta e calamaio. Gambara si sedette al tavolo e cominciò a scartabellare il libro senza capirci niente e a farci dei segni con la penna. Siccome non sapeva scrivere, venivano fuori dei segni ben strani, e i servi che entravano due volte al giorno a portargli da mangiare, si fecero l’idea che fosse un astrologo molto sapiente.Questi servi erano stati loro a rubare l’anello, e con la coscienza sporca che avevano, quelle occhiatacce che loro rivolgeva Gambara ogni volta che entravano, per darsi aria d’uomo d’autorità, parevano loro occhiate di sospetto. Cominciarono ad aver paura d’essere scoperti e, non la finivano più con le riverenze, le attenzioni: – Si, signor astrologo! Comandi, signor astrologo! Gambara, che astrologo non era, ma contadino, e perciò malizioso, subito aveva pensato che i servi dovessero saperne qualcosa dell’anello. E pensò di farli cascare in un inganno. Un giorno, all’ora in cui gli portavano il pranzo, si nascose sotto il letto. Entrò il primo dei servi e non vide nessuno. Di sotto il letto Gambara disse forte: – E uno!- il servo lasciò il piatto e si ritirò spaventato.
Entrò il secondo servo, e sentì quella voce che pareva venisse di sotto terra: – E due! – e scappò via anche lui. Entrò il terzo, – E tre!
I servi si consultarono: – Ormai siamo scoperti, se l’astrologo ci accusa al Re, siamo spacciati. Cosi decisero d’andare dall’astrologo e confessargli il furto. – Noi siamo povera gente, – gli fecero, – e se dite al Re quello che avete scoperto, siamo perduti. Eccovi questa borsa d’oro: vi preghiamo di non tradirci.
Gambara prese la borsa e disse: – lo non vi tradirò, però voi fate quel che vi dico. Prendete l’anello e fatelo inghiottire a quel tacchino che c’è laggiù in cortile. Poi lasciate fare a me.
Il giorno dopo Gambara si presentò al Re e gli disse che dopo lunghi studi era riuscito a sapere dov’era l’anello.
– E dov’è? –
– L’ha inghiottito un tacchino. –
Fu sventrato il tacchino e si trovò l’anello. Il Re colmò di ricchezze l’astrologo e diede un pranzo in suo onore, con tutti i Conti, i Marchesi, i Baroni e Grandi del Regno.
Fra le tante pietanze fu portato in tavola un piatto di gamberi. Bisogna sapere che in quel paese non si conoscevano i gamberi e quella era la prima volta che se ne vedevano, regalo di un re d’altro paese.
– Tu che sei astrologo, – disse il Re al contadino, – dovresti sapermi dire come si chiamano questi che sono qui nel piatto.
Il poveretto di bestie così non ne aveva mai viste né sentite nominare. E disse tra sé, a mezza voce: – Ah, Gambara, Gambara… sei finito male!
– Bravo! – disse il Re che non sapeva il vero nome del contadino. – Hai indovinato: quello è il nome: gamberi! Sei il più grande astrologo dei mondo
Hamelin è una piccola e strana città della Prussia, arroccata su un colle gaio e fiorito. Tutte le strade scendono di là verso un ampio fiume.
Vi fu un tempo in cui la gente qui viveva felice.
Ma un brutto giorno avvenne una terribile invasione: topi, topi ovunque… e così gagliardi da spaventare i gatti più coraggiosi! Mordevano i neonati nelle culle, divoravano in un battibaleno enormi forme di cacio, leccavano la salsa sotto gli occhi delle cuoche, pappavano interi barili di sardine e… fischiavano, stridevano cosi forte, da coprire persino le chiacchiere delle donne. Fssch…..sgrr… ssch! Il loro sibilo era in cinquanta e più toni, dai più gravi ai più acuti. Fu da allora che gli abitanti di Hamelin cominciarono ad ispirare un’ immensa pietà!
Il sindaco, disperato, arrivò ad offrire mille fiorini a chi fosse riuscito a liberare il paese da un simile incubo.
Una mattina arrivò in città un forestiero: era secco e allampanato, aveva negli occhi una luce strana e sul volto lo stesso colore giallognolo del cielo di Hamelin in quella fosca giornata di novembre. I suoi occhi guizzavano come le fiammelle delle candele quando vi si butta il sale e l’uomo misterioso si mise a suonare. Ed ecco, alla terza nota, un rosicchio assordante levarsi d’improvviso: grasc… crosc… grig… sgrr… e milioni e milioni di topi riversarsi sulle strade. Sbucavano a frotte dalle case, codine dritte e baffetti a punta, saltellando, ruzzolando, traballando, famiglie intere a dozzine, a ventine; mogli e mariti, fratelli e sorelle, topi bianchi e neri, grigi e rigati, grassi e magri, tutti dietro al pifferaio che suonava e suonava facendo scorrere le lunghe dita nervose sul suo magico strumento…..Tutti dietro a quella musica che diceva pressappoco cosi ” O topi, il mondo non è che una grande credenza.. ” e somigliava al rumorino del cacio quando vien grattato, delle mele mature pestate ben bene nel mortaio per ricavarne il sidro, di vasi di conserva scoperchiati, di fiaschi di sciroppo stappati, di barattoli di burro sfasciati ….
E via e via fin dentro le acque gelide del fiume, dove annegarono tutti allegramente.
Che scampanio in città, che festa per le strade! Ora che l’incubo era finito, la gioia di un tempo era tornata nei cuori della gente di Hamelin.
Ed ecco, tra la folla, farsi largo il pifferaio – Sono venuto a riscuotere i miei mille fiorini – disse senza esitazione. Il sindaco impallidì.
– Mille fiorini? E dovrei sborsarli a quel vagabondo? Già già – rispose beffardo – chi affoga non risuscita… se volete un boccale di vino da bagnarvi la bocca, non vi sarà negato, quanto ai mille fiorini, non era che una burletta …. cinquanta saranno anche troppi
– Giusto, giusto! – gridò la folla.
Un lampo di collera passò negli occhi del forestiero. Egli non disse nulla e si allontanò, ma riapparve subito dopo nella piazza principale. Allora sotto gli sguardi di una piccola folla attonita, aggrinzò le labbra, soffiò dentro il piffero magico e ne trasse tre dolcissime note….Subito un brusio festoso, un batter di manine, un calpestio di zoccoletti, un rimbalzar di voci fresche echeggiò nella piazza e…. decine, centinaia di bambini con le guancette rosee e gli occhietti vispi, biondi e bruni, paffuti e mingherlini, si misero in marcia dietro il pifferaio.
Invano padri e madri, balie e nutrici cercarono di trattenere le loro creature, i loro piedi restavano incollati ai ciottoli della piazza e le loro labbra non avevano voce…
Il pifferaio attraversò la città poi si volse. – Verso il fiume? – domanderete voi. Ebbene no, questa volta si diresse dalla parte opposta, verso la grande montagna. Giunto fin là, il fianco del monte si apri ed egli vi entrò seguito da tutti i bambini. Poi lentamente la parete si richiuse.
A nulla servì il pianto delle madri, che ogni giorno raggiungevano la montagna e appoggiavano gli orecchi contro la roccia per cercare di udire la voce dei loro bambini….La montagna era fredda e silenziosa e non si sarebbe riaperta mai più.
C’era una volta un Re che aveva tre figli in età da prender moglie. Perché non sorgessero rivalità sulla scelta delle tre spose, disse:
– “Tirate con la fionda più lontano che potete: dove cadrà la pietra là prenderete moglie.”
I tre figli presero le fionde e tirarono. Il più grande tirò e la pietra arrivo sul tetto di un Forno ed egli ebbe la fornaia.
Il secondo tirò e la pietra arrivò alla casa di una tessitrice. Al più piccino la pietra cascò in un fosso.
Appena tirato ognuno correva a portare l’anello alla fidanzata. Il più grande trovò una giovinotta bella soffice come una focaccia, il mezzano una pallidina, fina come un filo, e il più piccino, guarda guarda in quel fosso, non ci trovò che una rana. Tornarono dal Re a dire delle loro fidanzate.
– “Ora, disse il Re, chi ha la sposa migliore erediterà il regno. Facciamo le prove” – e diede a ognuno della canapa perché gliela riportassero di lì a tre giorni filata dalle fidanzate, per vedere chi filava meglio. I figli andarono delle fidanzate e si raccomandarono che filassero a puntino; il più piccolo tutto mortificato, con quella canapa in mano, se ne andò sul ciglio del fosso e si mise a chiamare:
– “Rana, rana!”
– “Chi mi chiama?”
– “L’amor tuo che poco t’ama.”
– “Se non m’ama , m’amerà quando bella mi vedrà.”
E la rana salto fuori dall’acqua su una foglia. Il figlio del Re le diede la canapa e disse che sarebbe ripassato a prenderla filata dopo tre giorni.
Dopo tre giorni i fratelli maggiori corsero tutti ansiosi dalla fornaia e dalla tessitrice a ritirare la canapa.
La fornaia aveva fatto un bel lavoro, ma la tessitrice che era il suo mestiere, l’aveva filata che pareva seta. E il più piccino? Andò al fosso:
– “Rana, rana!“
– “Chi mi chiama?”
– “L’amor tuo che poco t’ama.”
– “Se non m’ama , m’amerà quando bella mi vedrà.”
Saltò su una foglia e aveva in bocca una noce. Lui si vergognava un po’ di andare dal padre con una noce mentre i fratelli avevano portato la canapa filata; ma si fecero coraggio e andò. Il Re che aveva già guardato per diritto e per traverso il lavoro della fornaia e della tessitrice, aperse la noce del più piccino, e intanto i fratelli sghignazzavano. Aperta la noce ne venne fuori una tela così fina che pareva tela di ragno, e tira tira, spiega spiega, non finiva mai , e tutta la sala del trono ne era invasa.
– “Ma questa tela non finisce mai!” disse il Re, e appena dette queste parole la tela finì.
Il padre, a quest’idea che una rana diventasse regina, non voleva rassegnarsi. Erano nati tre cuccioli alla sua cagna da caccia preferita, e li diede ai tre figli: – “Portateli alle vostre fidanzate e tornerete a prenderli tra un mese: chi l’avrà allevato meglio sarà regina.”
Dopo un mese si vide che il cane della fornaia era diventato un molosso grande e grosso, perché il pane non gli era mancato; quello della tessitrice, tenuto più a stecchetto, era venuto un famelico mastino. Il più piccino arrivò con una cassettina, il Re aperse la cassettina e ne uscì un barboncino infiocchettato, pettinato, profumato, che stava ritto sulle zampe di dietro e sapeva fare gli esercizi militari e far di conto.
E il Re disse: – “Non c’è dubbio; sarà re mio figlio minore e la rana sarà regina.” Furono stabilite le nozze, tutti e tre i fratelli lo stesso giorno.
I fratelli maggiori andarono a prendere le spose con carrozze infiorate tirate da quattro cavalli, e le spose salirono tutte cariche di piume e di gioielli. Il più piccino andò al fosso, e la rana l’aspettava in una carrozza fatta d’una foglia di fico tirata da quattro lumache.
Presero ad andare: lui andava avanti, e le lumache lo seguivano tirando la foglia con la rana. Ogni tanto si fermava ad aspettare, una volta si addormentò. Quando si svegliò, gli s’era fermata davanti una carrozza tutta d’oro, imbottita di velluto, con due cavalli bianchi e dentro c’era una ragazza bella come il sole, con un abito verde smeraldo.
– “Chi siete?” – disse il figlio minore.
– “Sono la rana” -, e siccome lui non ci voleva credere, la ragazza aperse uno scrigno dove c’era la foglia di fico, la pelle della rana e quattro gusci di lumaca.
– “Ero una Principessa trasformata in rana, solo se un figlio di Re acconsentiva a sposarmi, senza sapere che ero bella, avrei ripreso la forma umana.”
Il Re fu tutto contento e ai figli maggiori che si rodevano d’invidia disse che chi non era neanche capace di scegliere la moglie non meritava la Corona. Re e regina diventarono il più piccino e la sua sposa.